Positività Tossica

 

Durante il lockdown di marzo abbiamo assistito, da parte di molti, a una negazione della possibilità di stare male dal punto di vista emotivo. Arcobaleni appesi ai balconi, messaggi motivazionali (es. “andrà tutto bene) e saluti ai vicini dalle finestre, erano il nostro pane quotidiano. In pochi avevano voglia di ascoltarsi, di sostare con la paura o la tristezza, reazioni normali rispetto alla situazione in cui ci trovavamo. Con questa seconda ondata sono diminuiti gli arcobaleni, ma resta in vigore la necessità di essere produttivi, di essere efficienti, cercando in tutti i modi di soffocare e reprimere le emozioni negative.

Nell’articolo precedente, ti ho raccontato e proposto un esercizio di “psicologia positiva”, che serve per allenare la consapevolezza emotiva, la gratitudine e la positività. Ma, come ti ho accennato in quell’articolo, essere felici ed essere ottimisti non significa essere sempre felici; o meglio, non significa non provare mai emozioni negative.

Censurare le emozioni che consideriamo negative, come la tristezza, la paura, o la rabbia si può definire “positività tossica”. Per affrontare questo argomento, ho chiesto alla Dott.ssa Gabriella Maratea e alla Dott.ssa Elisabetta Tagliapietra di rispondere a qualche domanda, per aiutarci a capire meglio cosa si intende per positività tossica e perché può essere pericolosa per la nostra salute mentale. Durante il primo lockdown, per contrastare tale tendenza, avevano lanciato un hashtag particolare su Facebook: l’hashtag #vabenecosì.

Di seguito, le loro preziose risposte.

Cosa significa “positività tossica”?

La positività tossica consiste nell’eccessivo incitamento ad essere ottimisti, fiduciosi, speranzosi, felici in ogni circostanza, ignorando tutto ciò che non va nella propria vita. Pertanto, è un processo che si traduce nel negare, minimizzare e invalidare l’esperienza emotiva autentica. L’imperativo della positività tossica è: “cerca il lato positivo”, anche quando senti che non c’è. Per fare un esempio: nei social la vediamo serpeggiare costantemente nei post dei cosiddetti “motivatori”, coloro che ti incitano a cambiare la tua vita tramite aforismi preconfezionati. 

Perché può diventare pericolosa?

Il messaggio implicito che trasmette la positività tossica è: “ciò che senti e ciò che sei non va bene. Trasformalo, cambialo in qualcosa di fittizio”. La conseguenza può essere un profondo senso di vergogna e inadeguatezza, accompagnato dal desiderio di non vedere realmente sè stessi e ciò che si prova. Ed è proprio qui che risiede il problema: la positività tossica impedisce all’individuo di svolgere alcuni processi mentali essenziali per il proprio benessere psichico. Nello specifico, non permette alla persona di incontrare sè stessa, di vedere e sentire le emozioni reali che sta provando. A sua volta, ciò può impedire all’individuo di accettare e accettarsi, di avere una visione reale di sé, della propria vita e di quali siano le cause del proprio malessere.

In ultima analisi, la positività è pericolosa quando è finta, forzata, giudicante.

Durante il lockdown a marzo avete inventato l’hashtag #vabenecosì. Come vi è venuta l’idea? Com’è nato? Cosa significa?

L’hashtag #vabenecosì è nato perché eravamo stufe degli arcobaleni appesi ai balconi. Ve li ricordate no? Fiumi di “andrà tutto bene” che non corrispondevano per nulla alle emozioni che sentivamo in quel momento. I social erano un’ode alla produttività: il tempo trascorso in lockdown doveva essere sfruttato fino all’ultimo minuto. Serpeggiava nell’aria l’incitamento a “far finta di niente”, a vivere la vita come se non fosse in atto una pandemia, evento traumatico globale. Non c’era spazio per dire “sto male”, non c’era spazio per le emozioni, per la sofferenza psichica. Sebbene fosse ammirevole e comprensibile il bisogno di nutrire speranza, era legittimo anche il contrario, andava bene. Andava bene non riuscire ad essere produttivi, andava bene essere tristi, arrabbiati, sconsolati. Andava bene passare una giornata a letto senza seguire mezzo corso online.

“Va bene così” era ed è un invito all’accettazione di sé e della propria realtà interiore, senza giudicarsi.

È un modo per dirsi e dire agli altri: “vai bene come sei e il cambiamento parte da qui”.

Che cos’è la psicologia del #vabenecosì?

La psicologia del #vabenecosì affonda le sue radici in tre principi, che vanno immaginati come dei passi consequenziali che puntano verso un maggior benessere psichico. Il primo è il riconoscimento: un processo che consiste nel prendere consapevolezza del proprio vissuto emotivo. È una sorta di incontro onesto con sè stessi, difficile, doloroso ma necessario. Si traduce nel chiedersi costantemente: “come mi sento davvero?”.

Il secondo principio (e passo) è l’accettazione, consiste nel “so-stare” attivamente con tale stato d’animo, senza giudicarsi. Accogliere le emozioni che si provano non è per nulla semplice: bisogna lottare con la propria storia di vita, gli schemi di pensiero e comportamento ormai radicati. 

Il terzo ed ultimo passo è il cambiamento. È bene sottolineare che si tratta di un cambiamento non imposto da altri, è un desiderio che nasce pian piano, che è frutto di riconoscimento e accettazione. Le emozioni, infatti, hanno un valore comunicativo: cercano di informare l’individuo su qualcosa. Comprendere il loro messaggio significa avere una possibilità in più di discernere tra ciò che favorisce il proprio benessere e ciò che non lo fa e può essere oggetto di cambiamento.

 

Ecco, secondo me il primo passo per stare bene è accettare anche le emozioni che consideriamo negative. Solamente ascoltandole, dando loro un nome e accettandole, diventiamo consapevoli della loro presenza e iniziamo ad agire per affrontarle.

Spero che questi spunti di riflessione ti siano utili e, se hai bisogno di un confronto, non esitare a scrivermi.

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